< Previous1 8 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 PERSONAGGI/ di Sergio Ferraris PERSONAGGI / di Michele Dotti Scarafaggi contro panda Gunter Pauli è un economista e imprenditore fuori dal coro. Ispirato dalla natura, ha seguito oltre 200 progetti nel mondo, creando 3 milioni di posti di lavoro È stato tra i creatori del Proto- collo di Kyoto negli anni 90 e ha lavorato all’organizzazio- ne della Cop 1. Iniziatore della Blue Economy, imprenditore ed economista, Gunter Pauli è il fondatore di Zeri (Zero Emission Research Initia- tive), rete internazionale di scienziati, studiosi ed economisti che ricercano so- luzioni innovative alle principali sfide del presente, progettando nuovi modi di produzione e di consumo. In Italia si è sempre usata l’espressione “essere al verde” per indicare la povertà. Forse è per questo che l’economia verde non si afferma. Lei ha cambiato prospettiva e anche colore. Ci spiega cos’è la Blue Economy e in che cosa si differenza dalla Green Economy? «Nella green economy tutto ciò che è buono per te ed è buono per la natura è costoso. Ciò è stupido, non ha alcun senso. Noi abbiamo bisogno di un’economia nella quale ciò che è giusto sia economico, mentre ciò che è dannoso deve essere costoso. È la logica della vita. Ma quando abbiamo un’economia in cui tutti pretendono che tutto sia più economico e vogliono produrre sempre più cose, è ovvio che si creino dei danni. L’Italia può competere con la Cina? Dimenticatelo. Perdereste. Dobbiamo cambiare il gioco. Pensate al panda che vive nutrendosi di solo bambù e se questo non c’è muore. È un po’ come le grandi multinazionali nel mondo. Io penso che dovremmo smettere di aiutare il panda, perché il panda sopravvive grazie alle manipolazioni genetiche. Io amo lo scarafaggio, che è un animale intelligente, creativo, un animale che trova sempre cibo. Dobbiamo iniziare a pensare come gli scarafaggi, che si prendono cura della famiglia, dei figli, sono come le formiche e le termiti, fanno nidi per le famiglie e sono qui da milioni di anni. E noi cerchiamo di ucciderli continuamente, con pesticidi, schiacciandoli e persino quando li schiacciamo non muoiono. Sono il simbolo della vita. Questa è l’economia reale. Contro qualsiasi probabilità ce la fai». 1 9 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Piccole economie a prezzi più bassi. Sembra un pensiero economico in controtendenza. È possibile? «Si. È l’unica via percorribile. Non possiamo accettare che tutto sia economico. Dobbiamo accettare che tutto ha un valore, un valore etico e un valore finanziario. Ma dobbiamo avere lo spirito, la mentalità, il piacere di creare valore. Perché il valore muove la società, non i prezzi bassi». Molti affermano che in futuro si perderà occupazione a causa della robotica e dell’intelligenza artificiale. La Blue Economy può compensare ciò? «Noi non compensiamo. Noi creiamo. E quando la mente crea valore non c’è bisogno di preoccuparsi dei robot, perché questi non creano valore, eliminano i costi. Nell’economia ciò che crea ricchezza non è eliminare costi ma è creare valore. Se io ho un caffè, io bevo solo lo 0,2% del valore del chicco di caffè. È nulla. Non riusciamo a dare valore alla parte rimanente. Quindi io prendo lo scarto del caffè e ci coltivo funghi. E gli scarti dei funghi sono molto ricchi di amminoacidi e diventano un ottimo cibo per le galline. E le galline mi danno le uova. C’è un robot che fa questo? No, il robot non sa nulla di galline, uova e caffè. Quindi io non mi preoccupo dei robot, purché noi continuiamo a creare valore con ciò che abbiamo». Come fare per portare la sostenibilità, per la quale spesso noi facciamo riferimento al 2020, a quelle persone che faticano ad arrivare al 20 del mese? «Dobbiamo essere impazienti. Molto. Essere come i bambini, che non hanno pazienza, vogliono tutto subito. Pensare al “subito” quando c’è una crisi, quando le persone non hanno un lavoro. Metà dei giovani nella maggior parte d’Europa non hanno lavoro, quindi sono d’accordo Michele, non pensiamo al 2020, pensiamo al 20 del mese. Dobbiamo immaginare cosa possiamo fare subito. E questa è la ragione per cui lavoro con i funghi, le alghe e i batteri, perché questi si muovono velocemente. Se io prendo una tazza di caffè oggi, in due settimane posso avere i funghi». MIchele Dotti intervista Gunter Pauli a Conoscenza in Festa, Udine20 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Come possono i processi industriali ispirarsi con successo alla natura? «La vera domanda è come sia possibile che l’industria non sia ispirata dai processi naturali. Perché l’unico sistema che sta producendo da centinaia di milioni di anni è la natura. Una foresta produce ogni anno 500 tonnellate di biomassa per ettaro. La soia geneticamente modificata riesce a produrne solo 5. Per cui, scusate, perché dovremmo preoccuparci della soia, noi dovremmo essere preoccupati delle foreste. Con gli OGM noi possiamo produrre appena l’1% di quello che la natura riesce a produrre. Quindi non capisco perché noi vogliamo essere come l’industria; l’industria è stupida. Non produttiva. Siamo noi a raccontarci che è molto produttiva e intelligente. Lasciami fare qualche esempio: se guardiamo un albero, sappiamo che produce foglie per catturare l’energia solare attraverso la clorofilla, le foglie cadono, vengono mangiate da batteri, funghi e vermi, i quali producono così humus. L’humus produce nutrimento per la pianta. Questo permette che si producano i fiori e i fiori con le api producono i frutti. E i frutti sono mangiati dagli uccelli e gli uccelli fanno la cacca che è il nutriente che permette all’albero di fare crescere le foglie. Così funziona la natura». Ci descrive nel concreto un’esperienza vincente sulla Blue Economy dal punto di vista sociale? «Abbiamo bisogno di occupazione. Io propongo nella Blue Economy un modello a zero disoccupazione, ispirato dalla natura. In natura nessuno è disoccupato. Ognuno contribuisce secondo le proprie possibilità, senza alcuna eccezione. Stiamo lavorando in Colombia in una regione chiamata Vichada in cui c’era l’80% di disoccupati, in 25 anni abbiamo raggiunto il 100% di occupazione. In che modo? Lo abbiamo deciso. Se voi deciderete di raggiungere la piena occupazione voi raggiungerete la piena occupazione. Non in 20 giorni, ovviamente, in 20 anni. Qual’è il requisito per riuscire a fare questo? Dovete avere una comunità che sogna. Se avete dei sogni avrete qualcosa che volete fare nel futuro. Se arriva qualcuno che ha perso tutto, noi abbiamo dei sogni, possiamo realizzare questi sogni insieme. Abbiamo creato 3 milioni di posti di lavoro, in tutto. Ma in questo progetto in specifico abbiamo tre priorità: anzitutto l’acqua, se non c’è acqua potabile e gratuita per tutti, non c’è una comunità; se volete acqua per sempre dovete piantare alberi, così noi abbiamo piantato 8 milioni di alberi. Gli alberi danno una resina, che trasformiamo localmente, in una fabbrica, in trementina. La trementina è il nostro combustibile per tutti i motori, al 100%. Sapete quanto si può risparmiare quando non hai più bisogno di petrolio? Noi siamo l’unica comunità al mondo che usa la trementina degli alberi come combustibile ed è gratis. A ogni bambino all’età di sei anni regaliamo una bicicletta. Se un bambino ogni giorno va in bici e beve tre litri d’acqua cosa accade? Che è in salute. Abbiamo un ospedale e dovremmo chiuderlo perché non ci sono pazienti. Il punto non è quanti letti abbiamo in un ospedale, ma di quanti letti potremmo non avere più bisogno. Questo è il futuro». Parliamo dell’Italia. Quali sono i vantaggi che avrebbe il nostro Paese con l’applicazione della Blue Economy? E cosa dovrebbe fare la politica per favorire questi processi? «L’Italia ha un grosso vantaggio: avete sempre avuto cattivi governi, perché voi li eleggete, per cui dovete prendervi cura da voi dei problemi, essendo quindi più flessibili e più creativi. Gli italiani sono i più flessibili e più creativi che io conosca. Per questo mi piace l’Italia, perché non mi piacciono le regole. Le regole sono fatte per chi è al potere. E a me non piace il potere. Dicono di me che sono un anarchico, ma non lo sono. Sono solo un essere un essere umano che vuole essere felice e stare in salute e vorrei che anche gli altri fossero felici e stessero in salute.». Per finire. Lei ha sei bambini: c’è qualcosa che si può fare per le generazioni future. Dunque, io ho 5 figli maschi. Dopo il quinto ci siamo detti: “Non tentiamo più”, per cui abbiamo adottato una bambina. Non c’è niente di più importante che ispirare le generazioni future. Il vero lavoro di un padre è di ispirare i figli. Non posso insegnare loro tutte le mie cattive abitudini. Devo ispirarli in modo che loro sentano di poter fare meglio di come il loro padre possa mai immaginare. Se permettiamo loro di credere che possono fare meglio di come si possa immaginare, avremo un grande futuro. Ed è per questo che ho scritto anche delle favole». ▲728 197 669 477 AGRICOLTORI IMPRESE, SOCIETÀ DI SERVIZI, ENTI IMPIANTI MW INSTALLATI #biogasfattobene #rivoluzioneagricola consorziobiogas.it IL NETWORK DEL CIB, LA PRIMA AGGREGAZIONE NAZIONALE CHE RAPPRESENTA LA FILIERA DELLA PRODUZIONE DI BIOGAS E BIOMETANO IN AGRICOLTURA22 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Plastica: onestà intellettuale prima di tutto La lotta alla plastica passa prima di tutto dalla riduzione del consumo LA CORNICE / Di Raffaella Bullo S ono mesi che viviamo un tripu- dio di apparenti vittorie rispet- to alla lotta contro l’impatto della plastica nell’ambiente. Balene spiaggiate con stomaci pieni di plastiche, tartarughe marine agonizzanti intrappolate, spiagge colme, fiumi ripie- ni hanno portato alla luce e al pubblico, finalmente, un problema ambientale de- nunciato da decenni da scienziati e tec- nici ambientali. Hanno portato soprat- tutto alla luce un sistema di consumo di massa, tutto occidentale nelle sue origi- ni, che risulta fallace. La normativa Eu- ropea per il divieto della plastica “usa e getta” è stata accolta positivamente, ma ricordiamo che le normative devono poi essere convertite in leggi nazionali, il che L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 richiede del tempo. L’Italia su questo sta dando un buon esempio e ha addirittura anticipato la normativa europea portan- do avanti il divieto sui cotton fioc, mi- croplastiche cosmetiche e shopper. Di pari passo, ogni giorno località maritti- me, in attesa dell’arrivo estivo dei turisti, si dichiarano “plastic free” attuando mi- sure per contrastare l’uso delle plastiche sulle spiagge e nelle località limitrofe. E poi c’è la corsa ai grandi eventi educativi di pulizia delle spiagge, alle raccolte dei rifiuti da parte della cittadinanza attiva, alle linee guida su come cambiare uno stile di vita e sostituire la plastica con prodotti naturali o riutilizzabili. Il pub- blico, i cittadini, mediamente, hanno di- mostrato un’attenta sensibilità al proble- ma. Raccolgono, riciclano e fanno atten- zione alle proprie azioni. Si moltiplicano ricerche per le bioplastiche, per ricicli ef- ficienti e innovativi. Insomma sembra che tutto vada benissimo. Produzione carente Sarebbe stato sciocco e ingenuo non pensare che dall’altra parte del fronte, quello dei produttori di materiali di po- limeri plastici da petrolio, non si fosse al- zato un coro di proteste. In sostanza i produttori si sono accaniti su alcuni punti specifici. Secondo loro la normati- va europea non considera nella valuta- zione l’intero ciclo di vita del prodotto plastica, che tali misure siano state prese sotto la pressione delle “lobby” contro le plastiche, che fondamentalmente l’in- quinamento dei mari da prodotti plastici è originato da paesi che europei non so- no e che il problema e le colpe risiedono nella gestione errata o assente dei rifiuti dopo il consumo da parte sia dei consu- matori finali e sia delle varie municipa- lizzate che dovrebbero stoccare e convo- gliare al riciclo i rifiuti finali. Cronaca oggettiva Il tempo è galantuomo e dispone di ac- qua fredda per delle docce gelide e bagni di umiltà che ci riportano alla vera realtà delle cose, molto più complessa di quan- to possa sembrare. Partiamo dalla cronaca degli ultimi gior- ni. Il 4 giugno l’Italia si sveglia con l’ope- razione della DDA di Milano, portata L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 avanti in collaborazione con i carabinieri del NOE. L’operazione ha portato alla luce un vasto traffico illecito di rifiuti nell’Italia settentrionale. Oltre il seque- stro delle strutture, sono state trovate di- scariche abusive con oltre 10.000 ton- nellate di rifiuti illeciti, per la maggior parte composti da plastica e gomma. L’inchiesta è partita nell’autunno scorso in seguito a una serie di roghi dolosi di materiali plastici stoccati in alcuni ca- pannoni. Nulla di nuovo sotto il sole ita- liano, ormai abituato da quasi qua- rant’anni e più di traffici illeciti e faccen- dieri pronti al facile guadagno. Il nuovo invece sta chiaramente nella conferenza stampa successiva all’operazione nelle parole del Comandante del Nucleo Tu- tela Ambientale Generale Ferla: «Il pro- blema si aggrava in Italia per due situa- zioni: la chiusura del mercato del Sud Est Asiatico e la totale insufficienza per la gran parte delle regioni in Italia della capacità di originare un ciclo di rifiuti e chiuderlo all’interno della stessa regio- ne». Come se non bastasse, il Procurato- re di Milano Francesco Greco rincara la dose: «La filiera dei rifiuti si è bloccata. C’è un surplus di produzione che non si sa come gestire se non con metodi illeci- ti». In poche parole in Italia il sistema del riciclo della plastica non basta a so- stenere il reale bisogno nazionale. Che è successo? Dal gennaio del 2018, la Cina ha chiuso le dogane ai rifiuti occi- dentali, fondamentalmente plastica, Ita- lia inclusa. Fino a quella data esportava- mo quasi il 50% delle plastiche negli im- pianti della Repubblica Popolare Cinese (dati Eurostat). Qui vi arrivava un mix di plastiche differenti da quasi tutto il mon- do industriale, plastiche non omogenee, lo scarto della raccolta differenziata di bassa qualità. Lì venivano lavorate, spes- so in condizioni scadenti, mischiando più plastiche, lavorate in altre plastiche e rispediti nel mondo occidentale sotto forma di oggetti differenti quali conteni- tori, giochi e altro a basso costo ma spes- so non conformi in Europa e contamina- ti. Chiuso il confine cinese, l’Italia, l’Euro- pa, gli Stati Uniti, e generalmente i paesi sviluppati e industriali hanno dovuto cercare altre strade, lecite ma molto spes- so illecite. Il rischio di trovarsi sommersi dalla propria plastica e così dimostrare i propri limiti non è accettabile da paesi pronti ad alzare il dito e dare la colpa dell’inquinamento delle plastiche al co- siddetto terzo mondo. La chiusura quin- di dei confini cinesi ha obbligato a trova- re altre strade presso altri paesi pronti a ricevere i nostri rifiuti. Si sono aperte vie nuove dei traffici verso la Malesia, la Tai- landia, le Filippine, il Vietnam, pronti dapprima a ricevere, ma subito dopo a li- mitare l’import, in quanto risultato spesso illecito e controllato da broker senza scrupoli del luogo o internaziona- li. Illecito perché spesso le plastiche ven- gono classificate come trattate e pronte per essere accolte in paesi extraeuropei e quindi riciclabili, come richiede il Rego- lamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 2006, n.1013. Perché è sempre cronaca di questi giorni l’alzata di voce, la presa di posizione ferma e ira- conda della Malesia, per voce della sua Ministra dell’ambiente Change Yeo Bee Yin: «Non saremo più la vostra discari- ca», nel momento in cui sono venuti alla luce circa 60 container carichi di mate- riale plastico contaminato e con docu- mentazione falsa sulle caratteristiche dei rifiuti dal Regno Unito, dall’Australia, dal Bangladesh, dagli USA, dal Canada, dal Giappone e dall’Arabia Saudita. Caso limite, che ben descrive la situazio- ne che sta venendo a galla, sono i mille container con 50 mila tonnellate di pla- stica non riciclabile dal Regno Unito. Ha fatto seguito la notizia che dalle Filippi- ne sono rimpatriati 69 container di pla- stica non riciclabile verso il mittente ca- nadese. La situazione dei viaggi sommersi della plastica dal mondo sviluppato verso mondi non pronti ad accogliere i nostri rifiuti ha fatto sì che il 10 maggio scorso le Nazioni Unite hanno rivisto la Con- venzione di Basilea, il trattato che regola il “controllo dei movimenti transfronta- lieri di rifiuti pericolosi e del loro smalti- mento”. 180 paesi hanno concordato di inserire gli scarti della plastica nella lista dei prodotti tossici e nocivi da regola- mentare. Per poter quindi esportare la plastica, le nazioni dovranno ottenere il consenso del paese destinatario. È im- portante ricordare che gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la Convenzio- ne e in questa occasione si sono opposti alla modifica.25 L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 Plastica emergente Pertanto la disponibilità venuta meno della Cina ha fatto emergere un proble- ma che il mondo sviluppato ha tenuto nascosto per comodo. I produttori di plastica hanno continuato imperterriti a produrre prodotti, il riciclaggio non ha mai realmente raggiunto e sviluppato tecniche pronte ad accogliere i nostri sfrenati bisogni di consumo. Se fino adesso abbiamo affrontato le vie extraeuropee, preoccupano le vie terre- stri all’interno della Comunità Europea e verso paesi dell’est: Slovenia, Romania, Ungheria, Croazia, Albania. L’impor- tante è che partano, spariscano dalla vi- sta e se l’obiettivo non è di facile attua- zione, ogni tanto un rogo doloso si svi- luppa negli impianti di stoccaggio. È evidente quindi che il riciclo non basta e si fa molto poco in Europa per affronta- re il problema delle plastiche, che è bene ricordare aumenterà il giro di affari e di volume nei prossimi decenni. Il recente rapporto “Preventing plastic waste in Europe”, pubblicato dalla EEA (Europe- an environment agency) sembra ricopia- re le parole del Procuratore Greco: «Le capacità di riciclaggio della plastica non hanno tenuto il passo con la crescente produzione globale di materie plasti- che”. In Europa solo il 30% dei rifiuti di plasti- ca viene raccolto per il riciclaggio e la maggior parte delle operazioni di rici- claggio avviene al di fuori dell’Europa, dove le norme ambientali non sono chia- re e spesso non stringenti come quelle europee. Quindi ritorniamo ai fiumi che inquina- no maggiormente i mari in giro per il mondo: sono 10 quelli che sono sott’ac- cusa e sono lo Yangtze, l’Indo, il Giallo, l’Hai, il Nilo, i Meghna/Brahmaputra, il fiume delle Perle, il Niger e il Mekong. Mediamente ogni anno entrano negli oceani tra gli 8 e i 13 milioni di tonnella- te di plastica. Quante plastiche che esco- no da questi fiumi sono, per esempio, frutto di discariche e impianti non adatti per ricevere i traffici illeciti da paesi svi- luppati? Secondo i produttori bisogna addossare a loro la maggior parte delle colpe. Un’affermazione che si sgretola nel momento in cui Greenpeace pubbli- ca le immagini del Po in secca con il suo letto di plastica, oppure le recentissime immagini delle acque del Sarno con il suo carico di plastica girate sui social. Forse i numeri aiutano meglio: il rappor- to del WWF uscito l’8 giugno riporta una quantità di plastica per il Mediterra- neo pari a 570.000 tonnellate annue, che rispetto ai 13 milioni di tonnellate è il 4,4% per un Mare che occupa solo lo 0,32% del volume totale degli oceani mondiali. Il problema non è lontano co- me vogliono farci credere. Per parlare di plastica è necessario onestà intellettuale, distinguere tra mitigazione e soluzione, riciclaggio reale e fittizio, prendere coscienza che non tutte le pla- stiche sono riciclabili, tagliare l’inutile e superfluo, smetterla di alzare il dito ac- cusatorio verso consumatori spesso iner- mi, verso paesi terzi e verso l’assenza di strutture pubbliche valide e guardarci in faccia seriamente. E cominciare un lun- go cammino d’innovazione scientifica e responsabilità imprenditoriali a monte. ▲L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 30 Plastica complessa L’universo delle plastiche è variegato e complicato e le soluzioni devono essere sistemiche BIOPLASTICHE / di Marco Benedetti* I l maggior pericolo per i mari non sono le zuppe di plastica - come se improvvisamente si scoprisse un tombino intasato - ma chi continua a buttarle, chi si gira dall’altra parte quando vede qualcuno che lo fa e da sempre la colpa agli altri. I criminali invece sono coloro che in nome del po- polo sovrano - consentono di buttarle. Fatta questa premessa che niente aggiun- ge o toglie al dibattito su come recupera- re e neutralizzare 600 milioni di tonnel- late in mare - e altrettante in terra (ma il fatto fa meno marketing turistico) - si deve per forza guardare al fenomeno di Greta Thunderberg con apprensione - se sei adulto inserito nel sistema - o esultare troppo presto - se sei un giovane che sta camminando verso il futuro incerto. Il suo movimento creato dal basso fa più paura ai potenti di uno stuolo di avvocati incazzati con Trump o a favore di Trump: come l’inquinamento non ha barriere fisiche e politiche, così il movi- mento stryke-for-climate è trasversale perché non ha bisogno della barriera lin- guistica ma dell’anima delle nuove gene- razioni a cui di fatto stiamo facendo di tutto per rubare il futuro: giustificando l’ingiustificabile. Soluzioni possibili Come spesso si sente nei Tg: salvaguar- diamo i posti di lavoro delle multinazio- nali che altrimenti chiudono la fabbrica; reprimiamo l’immigrazione che muoia di fame a casa loro; il rifiuto plastico ci sarà sempre perchè “anche Greta è stata vista mangiare un panino dentro la va- schetta isotermica e quindi è solo feno- meno mediatico” - provate a trovare un prodotto senza imballaggio plastico in Svezia, Danimarca o Olanda per es. - co- munque sia troviamo l’immondizia pla- stica sempre nel giardino del vicino e quindi ci buttiamo anche la nostra parte. Ci sono soluzioni? L’industria manifat- turiera - quella italiana è in prima fila - che crea economia e posti di lavoro pro- spetta soluzioni a tutte le ore del giorno e della notte; è la politica che - non essen- do fatta di tuttologhi ma al più di sordi con le mani sempre libere - dovrebbe re- cepire le istanze di chi l’ha eletta da un lato e dall’altra di chi paga le tasse se gli permetti di farlo con equità, ossia le im- prese che trovano le soluzioni. Nei dibattiti pubblici si cercano e pro- spettano solo soluzioni che a noi cittadi- ni comuni danno speranza: sono presen- tate come speranze ipotetiche (le univer- sità), potenziali (gli enti), reali (le indu- strie). Ma in molti casi mi pare più uno stuolo di scavatori di buche che non rie- scono a buttare fuori del tutto la terra ri- mossa che ricade sempre dentro, richie- dendo perdite di tempo, sforzi immani e pochi risultati. Le bioplastiche per esempio. L’Italia ha dato i natali a un leader mondiale illumi-L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2019 31 nato - Novamont - e tanti leader di setto- re per le loro applicazioni che come tipi- co in Italia, sono conosciutissimi nel loro settore ma non dalla comunità. Man- chiamo di gioco di squadra da sempre. Spesso creando catene di valore (circola- re) che però non riescono a completare il ciclo per mancanza di quelle norme che ne prevedono o valorizzano l’attuazio- ne. A partire dal mancato riconoscimen- to delle stesse nel firmamento delle pla- stiche (si vedano i primi sei numeri del triangolino che si trova stampato negli imballaggi e il n. 7 è altro - tra cui poli- carbonato sintetico e bioplastiche vege- tali) ovvero al diritto alla loro esistenza da parte di chi le plastiche le deve acco- gliere e smaltire correttamente come i consorzi obbligatori e che è finanziato apparentemente da chi le plastiche le produce, ma di fatto da chi acquista al consumo. Pesci e plastica Tuttavia il pericolo di un successo me- diatico popolare delle bioplastiche come “sostituto” delle plastiche perchè “biode- gradabili” e talvolta anche compostabili, non è auspicabile e parlo da tecnico e ambientalista. Così come non è auspica- bile che le plastiche (non biodegradabili e cheap) siano usate senza regole anche quando è palese la loro inefficienza - per esempio non proteggono dal caldo né dal freddo ma trasmettono caldo e fred- do a seconda dell’esposizione alla fonte di energia - e soprattutto a fronte della malcelata - e a volte sembra più secretata - sottovalutazione del loro uso per esem- pio a contatto con il cibo o con la pelle e in genere con la salute - ci sono calcoli che stimano che ogni lavaggio in lavatri- ce di abbigliamento sintetico come il pi- le, immetta nel sistema di scolo delle ac- que reflue e pertanto in mare, 50.000 mi- croparticelle di plastica staccatasi dalle fibre di poliestere di cui sono fatti oggi i cosiddetti materiali tecnici per abbiglia- mento. Dove poi finiscano queste mi- croparticelle è ormai noto: nella flora e fauna marina che diventano cibo per gli umani. Se come stimano le agenzie dell’Onu e le fondazioni come la Ellen MacArthur, nel 2050 ci sarà un pesce e un pezzo di plastica negli oceani. Se le plastiche di sintesi (petrolifera) pur essendo il 3° materiale al mondo più usa- to tuttavia sono “questo sconosciuto” ai cittadini del Pianeta - che continuano ad abbandonarlo ovunque - spesso ignari della loro esistenza, come nei filtri delle sigarette, nei fazzoletti umidificati, nei multistrato, negli imballaggi ibridi per gli alimenti che sembrano di carta ma so- no accoppiati alle “ecopelli” di poliureta- no o pvc - figurarsi cosa sono le bioplasti- che per il povero cittadino. Rifiuti non bio L’idea che il suffisso “bio” sia sinonimo di qualcosa che viene dalla Natura e che a lei torna facilmente una volta usato è purtroppo un automatismo pericoloso. Giustificare il gesto di buttare perchè tanto è bio - non essendo regolamentato da una legge che lo riconosca e quindi metta in guardia dalle conseguenza - è un danno per gli stessi produttori. Essi Next >