< PreviousPERSONAGGI / di Michele Dotti Realizzare imprese estreme sugli oceani per Alex Bellini è un mezzo di conoscenza e comunicazione allo stesso tempo A lex Bellini è un esploratore, celebre per le sue imprese estreme. Nel 2005 ha attraversato in solitaria l’Oceano Atlantico a remi (11.000 km in 227 giorni); nel 2008 il Pacifico (18.000 km in 294 giorni); ha corso la Marathon des Sables di 250 km nel deserto del Sahara e ha percorso un cammino attraverso l’Alaska, spingendo una slitta per 2.000 chilometri. Dal 2019 è impegnato nel progetto “10 rivers 1 Ocean” che lo porta a navigare i dieci fiumi più inquinati al mondo, con l’obiettivo di sensibilizzare su questo tema. Abbiamo voluto chiedergli cosa lo animi in queste sfide. Oceani, deserti, fiumi: la natura sembra essere il filo rosso che lega le sue imprese. Da dove nasce questa sua passione per l'ambiente? «Nasce dalla curiosità, la caratteristica che più mi contraddistingue. Curiosità che ho declinato in una maniera del tutto personale, che mi spinge a misurarmi con orizzonti nuovi, a chiedermi che cosa ci sia dietro. È molto diversa dalla curiosità di un artista, di un musicista, di un ricercatore. Però è comune a tante persone che non si accontentano dello status quo e vogliono investigare e si danno il permesso di conoscersi. L'avventura è un'avventura che si può compiere sul piano orizzontale, quello che ci fa muovere attraverso il nostro Pianeta, per rendersi conto che è inevitabile che l'esplorazione prenda anche una dimensione verticale, quella che mi spinge ad avventurarmi nelle profondità della mia persona. Sono nato in un piccolo paese di montagna, Aprica, in Valtellina e le montagne, che rappresentano da una parte un ostacolo, sono un invito a guardare oltre. Come se fossero la promessa di qualcosa, l'invito a chiedersi che cosa c'è in quel luogo in cui il sole sembra nascondersi dopo che è sceso oltre il profilo della montagna. Questo contesto naturale ha tracciato la traiettoria della mia vita». Un oceano d'ambienteLei ha dimostrato che nulla è impossibile, se lo si vuole davvero. Eppure, anche rispetto alle sfide ambientali spesso ci scontriamo con un senso di impotenza e una rassegnazione diffusa, che frenano l'azione. Secondo lei ciò da cosa deriva? «L'uomo ha bisogno di sentirsi agente e contribuire al suo destino. Quando emerge la sensazione di non poter contribuire alle proprie sorti, ma anche alle sorti del Pianeta ecco che nasce quella sensazione di incapacità di guidare la sua navicella nello spazio e orientare la traiettoria del futuro. Se vogliamo veramente salvare l'uomo dal suo destino - tutt'altro che roseo, stando alle conoscenze attuali- ognuno deve riconoscere di avere la responsabilità delle proprie singole azioni che possono avere però un valore e un impatto solo se moltiplicate e sommate all'azione di tutte le altre persone. Credo dobbiamo assumerci questa doppia responsabilità, individualmente ma anche collettivamente». Sul piano sportivo qual è stata la difficoltà maggiore che ha incontrato? «Quello su cui ho fatto più fatica, soprattutto in una fase iniziale della mia attività, è stato convincere le persone che sarei stato capace di fare quello che volevo fare. Non ho avuto grandi esperienze di mare, però dal 2004 ho iniziato ad avere un sogno: attraversare l'Oceano Atlantico in barca a remi. La difficoltà all’inizio fu persuadere che fossi la persona giusta. Lo volevo così dannatamente che ero disposto a fare qualunque cosa, non solo mettere a rischio la mia vita, ma anche impegnarmi nella preparazione, nella pianificazione, nella gestione di tutte le sfide. Questa è stata la prima difficoltà, la seconda fu rendersi conto che un conto è volere una cosa, un'altra è invece ottenerla: mi resi conto che avevo poca possibilità di controllare l'esito finale della spedizione. E per un ventenne montanaro, con una visione miope del mondo, non era facile, perché ero cresciuto con la filosofia del “se vuoi puoi”; andando per mare è chiaro che questa logica non torna, perché c’è la componente meteorologica che esce dal tuo controllo. La seconda lezione fu quindi che l'unica cosa che posso controllare è l'atteggiamento con cui vivo la mia vita: anche la capacità di risalire in barca dopo l'ennesimo capovolgimento dipende da quanto dannatamente vuoi arrivare dall'altra parte. Quella era la discriminante, potevo guadagnarmi dei chilometri verso la mia destinazione solo se nel momento del capovolgimento avevo ancora la voglia, il coraggio e la pazienza di rimettermi in barca e remare, poco o tanto che fosse per coronare il mio sogno». Che cosa può dire di aver imparato da queste esperienze estreme, a stretto contatto con la natura? C’è qualche episodio che ricorda in modo particolare? «Ho imparato che la natura può essere ordinata, ma anche estremamente disordinata, benevola e gentile ma può essere anche irascibile, può essere ispiratrice ma anche temibile. Alla natura non interessano i miei sogni: nel 2004 prima di raggiungere l'altra sponda dell'Atlantico subii un naufragio a Formentera e nelle ore successive dicevo «Ma perché la natura ce l'ha con me?». Oggi mi rendo conto dell'assurdità di quel pensiero. Nel 2005 quando ripartii da Genova per riprendere la navigazione mi ero già fatto un'altra idea ossia che alla Natura non interessava del mio obiettivo, perché esisteva indipendentemente da me, potevo godere appieno di questa esperienza in una cornice di tempo, una cornice geografica, nel rispetto però dei limiti e degli equilibri che regolano questa cornice. Sono proprio quei limiti che quotidianamente cerchiamo di forzare come esseri umani, al cospetto di un Pianeta dalle risorse finite. Ogni tanto ci illudiamo che le risorse siano infinite, da qui l'invito degli economisti all'importanza della crescita e del Pil, che però non misura il benessere degli esseri umani e del Pianeta, gli effetti negativi delle produzioni. La natura ha degli equilibri che dobbiamo preservare se vogliamo godere della natura come generatrice delle risorse che trasformiamo». Spesso si sente dire che i giovani sono il futuro. Penso invece che possano essere anche il nostro presente. Quale messaggio vuole rivolgere a loro? «Di continuare a fare quello che stanno facendo, di farlo ancora con più forza, anche perché riescono meglio degli adulti a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è negoziabile da ciò che non è negoziabile. Crescendo sviluppiamo flessibilità e la capacità di venire a patti, un bene per andare d'accordo con gli altri ma le stesse negoziazioni a volte sono contrarie a dei princìpi che non sono negoziabili, come la salute, il benessere, la sicurezza, il futuro. Se da una parte crescendo acquisiamo diplomazia, dall’altra perdiamo di centratura e di moralità, perché diventiamo disponibili a calpestare i valori a beneficio del benestare, mentre i giovani sono disposti a fare terreno bruciato per difendere un valore in cui credono. Quindi quello che chiederei loro è di continuare a mettere in crisi la visione di noi adulti per ricordarci quanto sia importante rimanere retti, rispettando i princìpi nei quali credevamo da piccoli come la lealtà, la fiducia, il coraggio, l'amicizia, la sincerità». Tiene molti corsi di formazione e incontri motivazionali. Qual è il “punto d’appoggio” su cui ritiene che si possa fare leva per promuovere il cambiamento? «È molto semplice: per promuovere un cambiamento nelle persone dobbiamo stimolarle a ricercare un senso nella loro vita. L'essere umano è prima di tutto un ricercatore di senso: nella mia attività di esploratore, assieme alla curiosità, credo di essere stato mosso molto dalla volontà di farmi trovare vivo dalla morte e qual è il modo migliore per fare questo se non dare un senso alla propria vita? È questo il punto focale, quindi generare felicità e benessere nelle persone attivando in loro la curiosità di capire qual è il loro ruolo su questo Pianeta, qual è lo scopo della loro vita. Riuscire ad allinearsi a un obiettivo più grande talvolta anche di noi stessi dà significato alle nostre giornate. Per fare un esempio molto personale, quando ho attraversato l'Atlantico e il Pacifico a remi, lo scopo profondo era di conoscere me stesso, di scoprire quale fosse il mio posto nel mondo e attivare quella forma di motivazione intrinseca che non può essere né comprata né venduta ma è generata da dentro, è un po’ l’Ikigai giapponese, il senso della vita». Come immagina il nostro futuro? Siamo senza speranza o c’è ancora una possibilità di vivere in armonia con il Pianeta? «Quando avevo sedici anni pensavo che il futuro che mi aspettava sarebbe stato ricco di soddisfazioni e felice. Oggi non so se i ragazzi di quell'età abbiano questa idea di futuro, se lo vedano ancora come foriero di cose belle oppure come qualcosa da temere. Guardando in giro, mi pare che il futuro sia sinonimo di incertezza, di imprevedibilità, di ambiguità e avverto un senso generale di timore verso quello che potrebbe avvenire. In questo momento forse attribuiamo troppa responsabilità alla tecnologia, come se ci aspettassimo da essa la bacchetta magica per risolvere i problemi che affliggono l'umanità. Secondo me non è tanto l'innovazione tecnologica che può portarci a questa idea di futuro ma è un'evoluzione culturale. Siamo vuoti di spirito e cerchiamo di colmare questo vuoto con la tecnologia che ci dà l'illusione di poter controllare il futuro, quando invece il futuro o sarà il frutto di un risveglio culturale, di una presa di coscienza, o non sarà affatto. Non ci sarà alcun tipo di futuro senza risveglio culturale». ▲ Foto: Alex Bellini - T5E @alexbellini_alone #10Rivers1Ocean; #weareallinthesameboat www.10rivers1ocean.com26 IL CONTESTO La cura del mare di Giorgia Marino 30 BIODIVERSITÀ Ecosistema mare di Chiara Castellani 34 EXCO CERCHI MARINI di Elena Pagliai 40 CLIMA ACQUE BOLLENTI di Cecilia Bergamasco 42 ENERGIA Potenza d’oceano di Ivan Manzo 44 MEMORIA MARE SPARITO di Fabio Roggiolani 46 INQUINAMENTO IL MARE OFFESO di Giuliano Gabbani 48 VULCANI FUOCO DAL FONDO di Giuseppe De Natale 50 L’AMBIENTE IN NUMERI Gli oceani in numeri a cura di Sergio Ferraris 51 IL PUNTO Il Mare, ponte e confine di Giuliano Tallone FOCUS Mare dimenticatoL'ECOFUTURO MAGAZINE marzo/aprile 2022 26 «C om’è profondo il mare», cantava Lucio Dalla. Tanto profondo e vasto da sembrare infinito. Tanto grande da aver generato l’illusione di poter sopportare tutto, di poter ingoiare e nascondere qualsiasi cosa vi gettassimo: navi affondate, tesori di pirati, residui bellici, reti da pesca, petrolio, plastica, liquami, scorie chimiche e radioattive e tutta la CO 2 in eccesso prodotta dalle nostre forsennate vite. Una gigantesca rimozione collettiva che ci sta portando a un punto di non ritorno. Dalla salute degli oceani, che coprono il 71% della superficie terrestre, dipende la salute dell’intero Pianeta e quindi la nostra sopravvivenza. Ma l’equilibrio è stato compromesso e oggi, oceani sempre più inquinati, sovrasfruttati e saturati di anidride carbonica hanno cominciato a far girare al contrario l’orologio dell’evoluzione - come ha denunciato già qualche anno fa il giornalista premio Pulitzer Ken Weiss – riportando alla ribalta forme di vita primordiali, capaci di adattarsi a un ambiente che sta diventando inospitale per le specie più evolute. Il mare non è "too big to fail” ma è "too big to ignore" e oltre a ciò è indispensabile alla vita La cura del mare IL CONTESTO / di Giorgia Marino Foto di Gerd Altmann da Pixabay L'ECOFUTURO MAGAZINE marzo/aprile 2022 27 Eppure, se è vero che il mare non è “too big to fail”, come scrivevano un paio di anni fa Jane Lubchenco e Steven Gaines in un editoriale di Science, è però “too big to ignore”, troppo grande per essere ignorato. L’invito dei due scienziati americani è quello di cambiare narrazione: non arrendersi al fatalismo e darsi da fare, non solo per proteggere gli ecosistemi marini ma anche per rigenerarli, perché «curando il mare, curiamo noi stessi». Da un mare in salute possono arrivare soluzioni preziose per vivere meglio: dalla mitigazione all’adattamento climatico, dalle energie pulite al supporto delle economie più deboli. Mare e clima Parlando delle conseguenze del cambiamento climatico sugli oceani, si pensa subito all’innalzamento del livello dei mari. Un problema pressante (si prevede un aumento medio di 10-25 cm al 2050 e, nella peggiore delle ipotesi, fino a un metro entro il 2100) che avrà effetti devastanti per molte zone costiere e che, a prescindere da quello che si potrà fare, ha già inevitabilmente condannato alla sparizione paradisi terrestri come l’arcipelago di Kiribati. Il rapporto fra mare e clima si gioca anche su scenari più complessi, con meccanismi ancora poco prevedibili. Innanzitutto, il mare è il più importante carbon sink che abbiamo a disposizione. Secondo il rapporto speciale dell’IPCC su oceani e criosfera, pubblicato nel 2019, dagli anni ‘80 ad oggi gli oceani hanno assimilato dal 20% al 30% di tutta l’anidride carbonica emessa dalle attività umane e hanno assorbito il 90% del calore generato dai gas serra di origine antropica, raffreddando di fatto il Pianeta. Questa naturale capacità di mitigazione non è infinita e soprattutto ha un prezzo. Aumentando la quantità di CO 2 in atmosfera, cresce anche quella in mare, alterando così la composizione chimica dell’acqua. La CO 2 dissolta in acqua forma acido carbonico, che fa aumentare l’acidità, con conseguenze gravissime sugli ecosistemi. Lo sbiancamento e il degrado delle barriere coralline ne sono l’esempio più noto ed evidente, ma non l’unico. Si innesca una sorta di circolo vizioso, per cui più anidride carbonica immettiamo in atmosfera, più diminuisce la capacità degli oceani di assorbirla e di conseguenza quella dell’intero Pianeta di mitigare gli effetti del surriscaldamento. Insomma, la salute del mare è fondamentale per combattere la crisi climatica e dovrebbe senza dubbio essere più centrale ai tavoli dei negoziati sul clima. Un mare di plastica Se la CO 2 che finisce negli oceani è invisibile e poco “mediatica”, lo stesso non si può dire dell’altro enorme problema del mare: la plastica. Le immagini di spiagge tropicali coperte di rifiuti, gabbiani morti con il ventre pieno di oggetti di plastica, tartarughe con cotton fioc incastrati nelle narici e pesci impigliati nelle retine delle birre non stupiscono e si direbbe, purtroppo, non allarmano più alcuno. Il conto mostruoso della quantità di plastica negli oceani è arrivato a quota 14 milioni di tonnellate. Nel 1930, agli albori del Plasticene, si producevano 50 mila tonnellate di materie plastiche l’anno, più o meno la stessa quantità che buttiamo in mare in due giorni; mentre già nel 2014, secondo una stima della Ellen McArthur Foundation, la produzione annua ha superato i 300 milioni di tonnellate. Uno studio di Science ha calcolato che tutta la plastica prodotta nel mondo fino a oggi ammonterebbe a 8,3 miliardi di tonnellate, di cui almeno 150 milioni si trovano negli oceani. o di Gerd Altmann da Pixabay L'ECOFUTURO MAGAZINE marzo/aprile 2022 28 Sotto forma di microplastiche, un genere di inquinamento ancora più subdolo e pervasivo, la plastica arriva ovunque: particelle di microplastiche sono state individuate nel punto più profondo dell’oceano – la Fossa delle Marianne – e in quello più alto della crosta terrestre – la cima del Monte Everest e persino il Mar Glaciale Artico ne è ormai invaso. Gli effetti di un inquinamento così esteso e capillare non si fermano alle drammatiche conseguenze sulla fauna marina e sulla biodiversità. La plastica in mare finisce per entrare nella catena alimentare e arrivare fino alla nostra tavola, mentre i componenti chimici possono agire come interferenti endocrini, alterando i comportamenti e la sopravvivenza di intere specie marine e quindi l’equilibrio degli ecosistemi. Ultimo, ma non meno importante, si comincia solo ora a studiare il contributo che i rifiuti di plastica che si degradano nell’oceano danno all’aumento delle emissioni di carbonio. Con uno scenario del genere, è chiaro che non basta trovare soluzioni - come il pur lodevole Ocean Cleanup di Boyan Slat - per raccogliere la plastica in mare. Bisogna agire alle radici del problema, riducendo drasticamente il consumo e la produzione. È proprio questo lo scopo dello storico accordo firmato il 2 marzo a Nairobi, in occasione della V Assemblea dell'Ambiente delle Nazioni Unite: un mandato per negoziare un trattato legalmente vincolante che affronti, per la prima volta, l'intero ciclo di vita della plastica. Un patto globale siglato da 175 nazioni che fa ben sperare in azioni concrete nel prossimo futuro. Il mare come risorsa: la Blue Economy Che il mare sia una risorsa insostituibile non andrebbe neanche detto, ma è sempre bene ribadirlo: dal mare veniamo e dal mare dipenderemo sempre, visto che il 50-70% dell’ossigeno del Pianeta è prodotto dalla fotosintesi delle alghe. Gli oceani sono anche una risorsa in senso economico. La cosiddetta Blue Economy comprende cinque settori legati agli ecosistemi marini e costieri: pesca e acquacoltura, trasporto marittimo, porti, turismo, fino al più recente, le energie rinnovabili marine. A questi va aggiunto un comparto che si potrebbe definire di avanguardia, visto che si sta appena cominciando ad esplorare il potenziale (ma anche i potenziali danni): il deep sea mining, ovvero l’estrazione, dai fondali abissali, di minerali e metalli strategici per la produzione di tecnologie necessarie alla transizione energetica. Tutti questi settori hanno ovviamente degli impatti, anche gravi, sugli ecosistemi. Basti pensare all’overfishing, la pesca eccessiva che depriva i mari di alcune specie ittiche: un rapporto della Fao, pubblicato nel 2020, ha stimato che quasi il 35% del pescato annuale è di troppo, visto che viene perso o buttato lungo la catena di produzione e distribuzione. Una pesca più “smart” e controllata, invece, lascerebbe il tempo agli ecosistemi di rigenerarsi, combatterebbe l’illegalità e aiuterebbe i pescatori, specie quelli delle aree più povere, a ottenere condizioni di lavoro più eque. O ancora, la creazione di aree protette ben progettate non solo sarebbe un’attrazione per un certo tipo di turismo ecosostenibile (a patto di limitare gli accessi annuali), ma soprattutto aiuterebbe a proteggere la biodiversità e contribuirebbe alla mitigazione climatica. Insomma, la Blue Economy può essere vantaggiosa, a patto di adottare un approccio intelligente, consapevole e sostenibile in tutte queste attività. Curare il mare per curare noi stessi. È una grande sfida, ma non abbiamo altra scelta. ▲ Per approfondire: Science – A new narrative for the Ocean (https://bit. ly/3u11NZL9) Intervista a Ken Weiss – (https://bit.ly/3KQAhEW) IPCC - Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate – (https://bit.ly/36owNuo) UNEP - Accordo sulla plastica – (https://bit.ly/3u6l9fY) FAO - The State of World Fisheries and Aquaculture 2020 (https://bit.ly/3MWzbt5)Next >