< PreviousL'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 40 Q uello tra agricoltura e clima è un legame a doppio filo. Antico quanto la civiltà umana, con il crescere della popolazione mondiale e l’estensione di colture e allevamenti è diventato un rapporto di reciproca influenza che ha instaurato un circolo vizioso. Più cibo produciamo con i metodi dell’agricoltura industriale e intensiva, più aumentano le emissioni di gas serra, maggiore è la concentrazione di carbonio in atmosfera più il clima diventa instabile e minaccia la resistenza dei nostri sistemi agroalimentari. Le vie d’uscita ci sono e non solo è auspicabile, ma è ormai necessario e urgente imboccarle. Emissioni e tempeste È bene farsi un’idea di quanto l’agricoltura influisca sul cambiamento climatico. Secondo il rapporto annuale di Nature Food, cui partecipa anche la divisione statistica della Fao, i sistemi agroalimentari di tutto il mondo sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni globali di carbonio. Nello specifico, si parla di 17,3 miliardi di tonnellate di CO 2 equivalente all’anno, dei quali il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale, quasi il doppio (il 57%) dai cibi di origine animale e il resto da coltivazioni destinate ad altri usi, come il cotone o la gomma. Lo studio – che analizza le filiere relative a 171 coltivazioni e 16 prodotti da allevamento - è il primo a tenere conto delle emissioni nette di tutti e tre i Il rapporto tra agricoltura e clima da circolo vizioso può e deve trasformarsi in un ciclo virtuoso Spighe per il clima AGRICOLTURA / di Giorgia MarinoL'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 41 principali gas serra: anidride carbonica, metano e protossido di azoto. Come spiega Xiaoming Xu, ricercatore dell'Università dell'Illinois e primo autore della ricerca, «sebbene la CO 2 sia molto importante, il metano generato dalle coltivazioni di riso e dagli allevamenti e il protossido di azoto derivante dai fertilizzanti sono rispettivamente 34 e 298 volte più potenti nel trattenere calore in atmosfera». A sua volta, la crisi climatica ha iniziato a mettere in difficoltà i sistemi agricoli. Tutte le colture su cui si basa il sostentamento della civiltà umana sono state sviluppate per un clima stabile; l’agricoltura, per come la conosciamo, si fonda sulla certezza delle stagioni. L’era delle tempeste, per dirla con il climatologo James Hansen, è cominciata: eventi meteorologici estremi più frequenti e più violenti - dalle siccità alle alluvioni, dagli uragani agli incendi - minano i sistemi agroalimentari. L’innalzamento dei livelli del mare e la salinizzazione del suolo costringerà molte aree a cambiare il tipo di coltivazioni o ad abbandonare del tutto la pratica agricola. I mutamenti nei cicli idrogeologici di grandi sistemi naturali, come quello himalayano, metteranno in crisi economie agricole millenarie. E ancora, gli effetti del cambiamento climatico uniti al sovra sfruttamento del suolo pongono a rischio desertificazione il 40% della superficie terrestre (persino in Europa!), mettendo in pericolo – secondo stime delle Nazioni Unite – la sussistenza di oltre un miliardo di persone. Il problema (ma sarebbe meglio dire l'emergenza) va affrontato su due fronti: adattarsi e attivarsi. Adattarsi: climate-smart agriculture Alcuni degli effetti della crisi climatica hanno imboccato una curva esponenziale e non arretreranno nemmeno con decise azioni di mitigazione delle emissioni. L'adattamento è una strategia imprescindibile. I metodi di adattamento, che la Fao già dal 2010 ha incluso sotto il cappello della climate-smart agriculture, sono svariati e la loro applicazione dipende dall'area e dal tipo di colture o allevamenti. Tutti si possono riassumere in due macro-concetti: resilienza ed efficienza. E tutti vanno nella direzione opposta a quella che, nel Secolo scorso, era stata battezzata Rivoluzione verde: una straordinaria crescita della produzione agricola fondata sull'uso massiccio di fertilizzanti chimici e pesticidi, sulla diffusione delle monocolture e su un uso poco responsabile delle risorse idriche. L'agricoltura climate-smart dovrà garantire la sicurezza alimentare di una popolazione che si avvia a raggiungere i 9 miliardi entro il 2050 utilizzando tecniche sostenibili: riducendo drasticamente la chimica, usando l'acqua in modo più efficiente e aumentando la biodiversità delle colture. Detta così pare utopia. In realtà, tutte le azioni in queste direzioni non L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 42 faranno che conservare o aumentare la fertilità del suolo, accrescendone di conseguenza anche la produttività. Diversificare le colture e adottarne di meno idrovore sarà sempre più necessario per essere resilienti e pronti ai cambiamenti repentini delle condizioni climatiche. Se, per esempio, il monsone impazzito distrugge il raccolto di riso di un villaggio himalayano, i contadini che previdentemente avranno seminato anche un campo di patate non moriranno di fame. O se un agricoltore americano, invece di riservare tutto il suo terreno al mais, una delle coltivazioni più idrovore, ne dedica una parte ai legumi, che hanno bisogno di poca acqua, non si ritroverà sul lastrico in caso (non più improbabile) di prolungata siccità. Attivarsi: carbon farming La seconda strategia è quel che si dice "rimboccarsi le maniche". L'agricoltura può avere un ruolo decisivo nel sequestro del carbonio e oggi finalmente si comprende. Le varie tecniche e soluzioni per sequestrare il carbonio atmosferico nel suolo e nelle radici, nel legno e nelle foglie delle colture costituiscono quel che oggi si chiama carbon farming e che è diventato una parte della strategia europea “Farm to Fork”. Si tratta di intensificare la fotosintesi (per esempio praticando la doppia coltura o l'agroforestazione), e di mantenere o, ancora meglio, aumentare la dotazione di carbonio organico del suolo, "restituendoglielo" sotto forma di digestato utilizzato come fertilizzante al posto dei concimi chimici. Tutte azioni che fanno parte dell'iniziativa “Farming for Future” promossa dal Cib - Consorzio Italiano Biogas. Un programma composto da dieci punti che ruotano attorno all'inserimento di un impianto per la produzione di biogas nelle aziende agricole. «Una volta integrato con le filiere produttive, - spiega l'agronoma Lorella Rossi del Cib - un impianto di biogas fa infatti da elemento facilitatore e catalizzatore per l'adozione di tutta una serie di tecniche di carbon farming e mitigazione delle emissioni. Per esempio, la fertilizzazione organica con il digestato, residuo della trasformazione di effluenti zootecnici e scarti agricoli in biogas, non solo riporta il carbonio nel suolo, ma riduce l'uso di fertilizzanti chimici evitando le emissioni per la loro produzione». Il carbonio va mantenuto nel terreno e per questo il programma del Cib raccomanda tecniche di lavorazione e aratura più leggere. «Si parla di minima lavorazione – precisa Rossi - si lavorano solo i primi 10-15 centimetri di suolo, senza andare in profondità. Altra tecnica è lo strip tillage, o lavorazione a strisce: sempre superficiale ma a strisce che si alternano da un anno all'altro, così da permettere allo strato lavorato di rigenerarsi. È un tipo di lavorazione di precisione che richiede una guida satellitare. Tecnologia che conviene utilizzare anche per la semina, così da non sprecare risorse». Per quanto riguarda l'incremento della fotosintesi, avere un impianto di biogas in fattoria rende più conveniente la pratica della doppia coltura o cover crop: la coltura di copertura che si pianta nei mesi invernali per far rigenerare il terreno (più piante = più fotosintesi) diventa cioè la materia prima per il digestore anaerobico, in un ciclo perfettamente chiuso e sinergico. «La maggior parte delle aziende del Cib, circa il 70% su 750, pratica la doppia coltura – conferma Lorella Rossi – e oltre il 60%, grazie al digestato, ha ridotto drasticamente l'acquisto di concimi chimici». Gli effetti positivi non finiscono qui: le aziende agricole che hanno anche animali, possono trattare gli scarti zootecnici nel digestore, ricavandone biogas ed evitando l'emissione di metano in atmosfera. «Potremmo arrivare a una quota del 60% di effluenti da allevamento trasformati in biogas entro il 2030. - aggiunge Rossi - È il modo migliore di gestire questo tipo di scarti e lo conferma anche l'Ispra». Insomma, un circolo vizioso che si trasforma in ciclo virtuoso. ▲ Cib: https://farmingforfuture.it/ “Nature Food”: (https://go.nature.com/3oXe1BV) "Tempeste", James Hansen: (https://bit.ly/3iIgxI7) Carbon Farming EU: (https://bit.ly/3iKsCwp)L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 44 A livello globale l’agricoltura è responsabile di un quarto delle emissioni di CO 2 . Mettendo a confronto per quasi 40 anni gli effetti dell'agricoltura convenzionale con quella biologica, il Rodale Institute (https://rodaleinstitute.org/it/), ha dimostrato che i sistemi biologici utilizzano il 45% di energia in meno, producono il 40% in meno di emissioni di CO 2 e migliorano la salute e la quantità del suolo nel tempo, creando il potenziale per produrre rese fino al 40% maggiori in tempi di siccità rispetto ai sistemi convenzionali. Inoltre, deve essere sottolineata la capacità dei suoli e delle piante di sequestrare il carbonio, estraendolo dall'atmosfera - che costituisce un problema per il clima- e, rimettendolo sotto terra, dove invece rappresenta una ricchezza per le piante. Secondo i calcoli dell’Istituto, se convertissimo tutti i terreni coltivati e i pascoli globali all'agricoltura biologica rigenerativa, potremmo sequestrare più del 100% delle attuali emissioni annuali di CO 2 . Intorno all’agricoltura ruotano altri aspetti: trasporti, energia impiegata per le lavorazioni dei prodotti, costruzione dei magazzini per lo stoccaggio e più in generale le infrastrutture necessarie per l'intera filiera produttiva, imballaggi e molto altro. Vorrei presentarvi la storia di un'eccellenza italiana, esempio positivo e contagioso: quella della Cooperativa Girolomoni, che ha mostrato attenzione alla sostenibilità ambientale e l’anno scorso è stata nominata fra gli Ambasciatori dell’economia civile. Da oltre trent’anni, presso la Cooperativa, si mettono in pratica scelte ecosostenibili. L’azienda, che L'agricoltura può dare un contributo decisivo per cambiare il futuro del nostro Pianeta, in meglio o in peggio Bio & clima ESPERIENZE / di Michele DottiL'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 45 sorge sulla collina incontaminata che tanto aveva affascinato il suo fondatore Gino nel 1971, è in grado di autoprodurre energia elettrica in totale autonomia grazie ai pannelli fotovoltaici. L’essiccazione della pasta, che varia dalle 7 alle 12 ore a seconda del formato, viene effettuata a una temperatura compresa fra i 60 e 65 °C grazie a una caldaia a cippato di fornitura locale, mentre il resto dell’energia viene acquistato da fonti di energia 100% rinnovabile italiana. Per quanto possibile si è ricorso alla bioedilizia per gli edifici, così come si presta attenzione al packaging, ultimo anello della filiera sostenibile. Il 2021 segna una tappa importante nell’impegno cinquantennale della Girolomoni per la sostenibilità: il nuovo packaging -presentato in settembre al Salone Sana- riflette l’attenzione verso l’ambiente, impiegando 100% carta e nessun materiale accoppiato, come avviene spesso nelle confezioni in commercio. La cooperativa si è interrogata a lungo su quale fosse la soluzione di confezionamento ideale per “chiudere il cerchio”, gestendo direttamente anche questo passaggio nella maniera meno impattante possibile. Sono stati individuati due tipi di confezionamento per le due principali linee: • per il grano duro si è optato per una bobina in Terpap, 100% carta da foreste gestite in maniera responsabile, certificato classe «A» Aticelca. Gli inchiostri usati sono a base acqua e le lacche termosaldanti sono a base acqua e prive di solventi; • per i grani antichi, la gamma più preziosa, è stato scelto un sacchetto in 100% carta riciclabile da foreste gestite in maniera responsabile, con finestra separabile in pellicola di cellulosa (Natureflex), differenziabile nell’umido. La finestra, applicata a registro per evitare sprechi, valorizza la grana e il colore della pasta da grani antichi. Il biologico è un vero e proprio modo di vivere e quindi di lavorare: non è possibile produrre pasta biologica se non si mettono concretamente in atto soluzioni bio, ecologicamente sostenibili. «Da tempo ci documentiamo e cerchiamo soluzioni maggiormente sostenibili, con l’obiettivo di compiere scelte reali e non certo fare green washing – spiega Maria Girolomoni, figlia di Gino e responsabile Marketing e Pubbliche Relazioni della Girolomoni - optiamo per azioni concrete, salvaguardando il prezzo finale della pasta». «Per noi l’agricoltura biologica è uno stile di vita, – le fa eco il fratello Giovanni Battista, Presidente della Cooperativa - per questo il nostro impegno è rivolto a ogni aspetto della filiera. Una filiera che vuole essere espressione virtuosa di civiltà contadina in cui persistono e sono ancora centrali valori come il rispetto per l’uomo e la natura e l’importanza della parola data, che oggi si traducono nell’uso e nella ricerca di energia da fonti rinnovabili, nella valorizzazione dell’esperienze e del lavoro degli agricoltori, nel garantire al consumatore un prodotto ottenuto da materie prime italiane tracciate ad un giusto prezzo, nel preservare il patrimonio naturale e il paesaggio rurale». L’agricoltura può davvero cambiare il futuro del nostro Pianeta, quando ha il coraggio di scelte autentiche e coerenti come queste. ▲ Valori come il rispetto per l'uomo, per la natura e la parola data, oggi si traducono nell'uso e nella ricerca di energia da fonti rinnovabiliL'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 46 V i è una consolidata tendenza nelle minacce da affrontare che negli ultimi venti anni si è rafforzata: quella di non riuscire a identificare il nemico. Dinamica che velocizzerà la fine della nostra civiltà se continueremo a costruirla solo con avidità di vita. Grandi o piccole, le minacce a persone, Stati e continenti che hanno caratterizzato il nuovo millennio, sono legate da una caratteristica comune: sono oggetti scientificamente o fenomenologicamente identificati ma per noi impossibili da identificare come vorrebbe il nostro DNA, per permetterci di agire. Non è casuale. Da decenni anche lo scontro sociale si compone tra persone e sovra-entità non ben identificabili come “i mercati” o “la finanza”, o “la corruzione”, o “l’incapacità”, o “i poteri forti”, di cui sentiamo la presenza e le conseguenze sulle nostre vite, ma per questioni di convenienza rimangono sempre senza un nome e un cognome e senza una forma fisica. Addirittura nell’ultima crisi finanziaria del 2008-2009 tutto è avvenuto senza che vi fosse un preciso evento scatenante. Un’ombra che si allunga sul presente e ben oltre fino a determinare il nostro futuro. Ma se c’è un’ombra, ci dovrebbe essere un responsabile che c’è sempre e di solito con sembianze antropomorfe. Ci raccontiamo che per noi uscire dalla caverna è spaventoso, a causa del Gli iperoggetti sono fenomeni che sfuggono alla nostra comprensione ma in cui trascorriamo le nostre vite: pandemia e clima Il clima come iperoggetto ANALISI / di Giorgio MottironiL'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 47 bagliore che offuscherebbe la nostra vista, quando in realtà ciò che più ci spaventa è proprio lo specchio che ci attende lì fuori e che punterebbe sulle nostre scelte, su di noi, la ragione, la colpa di tutto. Ma questa è un’altra storia. Quella di oggi è la storia di minacce molto percettibili, ma poco definibili. La storia degli “iperoggetti”. Tanto per cominciare gli “iperoggetti” si producono in un tipo di minaccia differente, che si rappresenta in noi con una sensazione di ansia e angoscia”; se non riusciamo a determinarla non stimoliamo quella forma di emozione che ci porta all’azione. È la stessa situazione in cui si ritrova il bambino al buio (o ancora noi): la paura del buio è l’angoscia di una presenza ignota. Qualcosa che c’è (o forse no), che non riconosciamo senza la vista. Al contrario, uno schiaffo è una minaccia ben determinabile. Ecco, lo schiaffo è ciò che rappresentano i fenomeni violenti in cui si manifesta più o meno frequentemente un iperoggetto: gli innumerevoli decessi per il Coronavirus, così come quelli per le grandi tragedie, che sempre più di frequente, si verificano come conseguenze di fenomeni atmosferici (alluvioni, inondazioni, incendi). Emozione & Azione È proprio in concomitanza di questi momenti e sulla conseguente onda emotiva che si cerca di concretizzare l’azione. Perché si concretizza la paura. Ciò che c’è nel mezzo, la comunicazione, gli indicatori, è sbagliato (ma, ancora una volta, questa è un’altra storia da approfondire). La definizione di iperoggetto la dà il filosofo inglese Timothy Morton, ed è perfettamente calzante sia per il Climate Change sia per una pandemia: un iperoggetto è un fenomeno che sfugge alla nostra comprensione ma in cui trascorriamo le nostre vite. Talmente grande e talmente assorbente da non capire che ci viviamo dentro. Una vera e propria bolla di nebbia cognitiva che L'ECOFUTURO MAGAZINE settembre/ottobre 2021 48 dimostra come la prossimità spaziale e geometrica non sia sufficiente se non vi è una prossimità emotiva e se questa non è a sua volta ben determinabile. «Il perché si verifichi, il perché esista, sono superati dalla sua manifestazione stessa. L’unica in grado di toccarci emotivamente». Le nuove minacce sono indeterminate, finché non ci colpiscono. Distanti finché non manifestano, nella vita di ciascuno, gli effetti della loro esistenza. Sono subdole perché noi continuiamo a compiere le stesse scelte che le alimentano, che le ingigantiscono, che le provocano. «Prossimità spaziale continua, ma prossimità emotiva intermittente diseducano la nostra capacità di risposta». Timothy Morton, in virtù di tali considerazioni che rappresentano un sonno da cui l’uomo non sembra riuscire a risvegliarsi e in attesa di chissà quale soluzione miracolosa, afferma che la fine della nostra presenza su questo Pianeta, ha avuto inizio con l’Antropocene (il termine indica l’epoca geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche). Il primo a introdurre tale principio, ancora in fase di elaborazione, fu un geologo italiano, Antonio Stoppani, il quale nel 1873 affermò che «l’uomo è una forza tellurica». Non è detto che l’estinzione di una specie si debba necessariamente ricondurre ad un evento improvviso e drammatico, come nel caso del meteorite e dei dinosauri. A volte, la fine di una specie o di una civiltà, si realizzano lentamente nel tempo, in parallelo al potenziamento delle velleità stesse di quella specie o civiltà e in parallelo all’erosione delle condizioni ambientali, sociali (ed economiche) per la sua sopravvivenza. D’altronde noi siamo la specie che ha dimostrato di poter durare meno di tutte le altre specie animali. I nostri cugini si sono già estinti. Certo, per caratteristiche evolutive che non ne garantivano la sopravvivenza sia rispetto alle condizioni contingenti sia rispetto al loro rapido mutare. Stiamo facendo di tutto per dimenticarci quanto siamo fragili rispetto alle ere geologiche e per costruire delle condizioni in cui non sarà possibile sopravvivere. Concetto ancor più evidente se si pensa ai ritmi di crescita demografici, comparandoli con le dinamiche di crescita economica e con i ritmi di sfruttamento delle risorse. Civiltà come quelle Egizia, Greca, Romana, dei Maya e degli Aztechi, sono sparite lentamente, consumate dal loro stesso status, o perché loro sono mutate in maniera non allineata alle condizioni esterne o perché sono mutate le condizioni esterne rispetto a loro, mentre erano concentrate sulla stessa cosa su cui siamo concentrati noi: l’avidità di vita. Già Lucrezio, circa 2000 anni fa, nel “De Rerum Natura”, ammoniva l’uomo ricordandogli delle sue due più grandi malattie: la noia e il velleitarismo, ovvero l’incapacità di sentirsi appagato e soddisfatto da ciò che ha e il desiderio di sempre maggior potenza. Lucrezio ci redarguiva “poeticamente”, parlando in un appetito di vita vorace e d'una sete di vita insaziabile. Ma ci ammoniva, già 2000 anni fa. Noi saremo probabilmente la prima civiltà in grado di poter assistere consapevolmente alla propria fine, attraverso scelte che saranno state abbondantemente dibattute a livello politico e sociale, ben archiviate e quindi facilmente “memorabili”. Moriranno molte più persone ogni anno: per epidemie, per sconvolgimenti dovuti ai cambiamenti climatici, per gli scontri che avverranno per accaparrarsi delle porzioni di Pianeta su cui sia possibile assicurarsi un’esistenza dignitosa, come le recenti marce di migranti dal Centro America verso gli Stati Uniti. La verità è che i fenomeni che abbiamo innescato con il nostro modo di vivere rappresentano nuove minacce cui il nostro DNA non sa come reagire istintivamente e rispetto ai quali solo una preparazione cognitiva e culturale (nuove conoscenze -> nuovi valori -> nuova etica -> nuova società -> nuova politica -> nuova economia) potrà salvarci. Assistiamo a nuove minacce e a una nuove morti che abbiamo reso più potenti e in grado di raggiungerci anche al di fuori della natura stessa, mentre dovremmo ricordarci che la natura è la nostra casa e che nelle sue regole possiamo sentirci a casa. ▲ *CoFounder & CSO di ENER2CROWDNext >